Regista: Matteo Rovere

Produzione: Italia - Belgio

Anno: 2019    

Attori: Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Tania Garribba

 

Il nostro giudizio: buono

Recensione Febbraio 2019: Geppetto

 

“Matteo Rovere! Chi era costui?”

Pare che in qualsiasi testo, foss’anche la lista della spesa, l’incipit sia fondamentale come invito alla lettura. Ed allora mi adeguo, utilizzandone uno già sperimentato con qualche successo.

Dunque ho scoperto (Wikipedia) che Matteo Rovere è un giovane regista ed anche produttore che già a diciannove anni si era messo in luce con un primo cortometraggio. Dopo di che, come un predestinato, ha fatto cose di buon successo fino a vincere come produttore un nastro d’argento a 32 anni per Smetto quando voglio. Record di precocità.

Il primo re è quel tipo di film da cui, a leggerne sui giornali, uno si terrebbe di solito ben lontano; a meno che non sia un frequentatore di cineteche per rivedersi i primi film muti: La corazzata Potemkin di fantozziana memoria, Metropolis di Fritz Lang, etc. O nuove produzioni della nascente cinematografia Afgana.

Basti pensare che il film su Remo e Romolo (il primo re, appunto) è parlato in un “protolatino arcaico con innesti indoeuropei archeologici”, tutto sottotitolato, ovviamente. Linguaggio studiato appositamente, pare, da esperti dell’università La sapienza.

Poi si legge che il film è primo al Box office. Qualcosa non quadra.

Ebbene, noi non apparteniamo alle categorie di cui sopra, eppure non ci siamo pentiti dei aver speso i soldi del biglietto.

La storia, o meglio la leggenda, la sappiamo, nelle sue varie versioni (Livio, Plutarco etc.).

Il film comincia con Romolo e Remo già adulti e pastori, tralasciando quanto tramandato sulle loro origini: Rea Silva, Enea, etc. I due fratelli, straordinariamente uniti, sono travolti da una piena del Tevere e catturati dagli abitanti di Alba Longa. Destinati alla morte riescono a ribellarsi e fuggire insieme ad altri prigionieri. Romolo è ferito e amorevolmente accudito da fratello. Scappano nelle paludi, inseguiti. Remo combatte e vince altri latini, sfama i compagni e ne diventa il re. Una vestale predice che uno dei due sarà re di una nuova città; lo sarà quello che ucciderà il fratello. Ma Remo non vuole uccidere Romolo, uccide la vestale, spegne la fiamma del sacro fuoco e si ribella agli dei ed al destino. Finale: battaglia campale con i guerrieri di Alba. Romolo è guarito, ha salvato il fuoco sacro, corre in soccorso del fratello e vincono. Ma Remo attraversa il solco tracciato a difesa del sacro fuoco ed è ucciso dal fratello. The End.

Scelta consapevole quella di Remo, di sacrificio perché re sia suo fratello? Perdita di contatto con la realtà per un ego che, di successo in successo, è diventato smisurato.  Punizione degli dei per chi si era ribellato al loro volere? Chi avesse spento la fiamma accesa per la Dea Vesta, simbolo della perenne verginità delle sacerdotesse, veniva punito a Roma con la morte. Ed il fuoco era sacro anche a Troia (Enea quando scappa se lo porta dietro) e nelle civiltà indoeuropee.  Altre letture sono possibili.

La fotografia di Daniele Ciprì è bellissima. Pare che la luce sia stata, durante le riprese, rigorosamente quella naturale, senza usi di particolari tecnologie. Solo la piena iniziale del Tevere è frutto di computer graphic. I boschi e le paludi in cui si svolge tutto il film sono rigorosamente laziali, e c’è da non credere che a pochi chilometri da Roma esistano ancora posti così.

I personaggi nell’abbigliamento, nei comportamenti, nelle convinzioni profonde, sono ricostruiti per come si pensa dovessero essere gli uomini dell’ottavo secolo a.c.

Il filologo e antropologo latinista Bettini ha avuto da ridire su questa ricostruzione: ha scritto su Repubblica che i costumi, il clima, le paludi fanno pensare alla mitologia nordica. Insomma Romolo e Remo come celti o vichinghi.  Francamente non siamo in grado di entrare nel merito, ma il cinema deve essere “credibile”, non di più. Non può, non deve assomigliare ad un rigoroso trattato di antropologia per addetti ai lavori. Infatti anche la scelta linguistica, coraggiosa senz’altro ma un po’ snob, sembra più dettata dal marketing che da esigenze effettive. Ma il film è molto di immagini e di poche parole: ci può stare.

Vogliamo parlare dei film americani del passato su Roma? Ben Hur, Antonio e Cleopatra per non risalire a Cecil DeMille? Con le facce degli attori sbarbatissime fresche di proraso, le armature di cartone e le spade di compensato? Ci sembra un bel passo avanti. Anche se, dobbiamo riconoscere, un po’ di cinematografia americana contemporanea fa capolino in qualche scena. Qualche combattimento trucido e violento ci ha ricordato Mel Gipson (ad esempio La passione di Cristo) o Revenant di Inarritu.

Anche il rapporto con la religiosità ci sembra ben ricostruito, per quello che si immagina dovesse essere all’epoca. Nel film è centrale. La preghiera, il sacrificio di animali sono frequenti. Le catastrofi, le piene dei fiumi, i fulmini, per i primi romani sono manifestazione della collera divina. La misteriosa foresta, luogo sconosciuto ed irto di pericoli di cui non si conoscono le origini, è governata da Dei che puniscono per trasgressioni a regole che ovviamente sono gli uomini ad aver creato o solo immaginato. Non era Giove quello rappresentato nell’iconografia con i fulmini in mano, ancora molti secoli dopo? E ancora più recentemente: la peste castigo divino, le streghe in grado di determinare malefici … Ciò che non si conosce o non si capisce è facilmente ascrivibile all’ultraterreno.

Nel film Remo, che per amore del fratello ha rinnegato la divinità, è perdente. Romolo, salvatore del sacro fuoco e creatore di nuove vestali che lo custodiscano, uccide il fratello e passa alla storia come creatore del grande impero. Anche questa potrebbe essere una chiave di lettura.

Insomma, all’uscita del cinema un bel discutere, se si è in compagnia. Ancora in programmazione.

 

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