Regista: Scott Frank

Anno: 2020

Attori: Anya Taylor-Joy, Thomas Brodie-Sangster, Harry Melling

 

 

Il nostro giudizio: OTTIMO

Recensione: Alessia Priori

 

Lo S-gambetto di Donna

 

Se fino a qualche mese fa c’erano persone che a sentire nominare gli “scacchi” si immaginavano signori attempati seduti al parco, intenti in mosse lente e soporifere, con “The Gambit’s Queen”, nuova serie diretta da Scott Frank, la percezione del mondo scacchistico è stata totalmente rivoluzionata. La miniserie, uscita ad ottobre 2020 su Netflix, si è subito rivelata un ottimo prodotto, non solo per la fotografia e l’intreccio narrativo, ma anche per la caratterizzazione dei personaggi e la loro sviluppata introspettività, che emerge in maniera ammirabile grazie ad un cast competente ( tra cui ricordiamo Anya Taylor-Joy, Harry Melling e Thomas Brodie Sangster). In soli sette episodi si intraprende un viaggio, ambientato tra gli anni ‘50 e ‘60, nel mondo degli scacchi, visti non come mero passatempo, ma come una vera e propria guerra per affermare se stessi dinanzi ad una realtà ostile e caotica.

 

Talento e Ossessione: il bianco e il nero del mondo degli scacchi.
Capablanca, Alechin,Lasker, Morphy: tutti scacchisti di fama mondiale che sono stati portati al successo attraverso la via dell’ossessione, spesso trasformatasi in paranoia e narcisismo patologici. A questi la serie si ispira per la rappresentazione dei personaggi e delle partite, le quali si avvalgono anche della consulenza di Garri Kasparov, campione del mondo negli scacchi dal 1985 al 2000 e di Bruce Pandolfini, maestro di scacchi che aveva già assistito Walter Tevis nella stesura del romanzo omonimo da cui la serie è tratta. Seguendo le mosse dei Grandi Maestri, è nata la figura di Elizabeth Harmon, un’orfana del Kentucky che impara a muoversi sulla scacchiera a soli otto anni, grazie a Sheibel, il custode dell’istituto al quale viene affidata dopo l’incidente in cui perde la madre. Elizabeth, detta Beth, mostra sin da subito un talento eccezionale, ma a caro prezzo: di notte, per studiare le mosse, si imbottisce dei tranquillanti che il medico dell’orfanotrofio dà loro giornalmente; dopo averli raccolti con diligenza, li prende tutti in una volta e stordita dai farmaci trascorre la notte giocando con i fantasmi dei 32 pezzi che le appaiono sullo scarno soffitto del dormitorio. Una dipendenza a cui già in tenera età, la porta l’ossessione e che la perseguiterà per tutta la sua adolescenza e oltre.

 

Lo Scacco Matto della realtà
La dipendenza dallo Xanzolam è dunque un sintomo del bisogno psicologico non di giocare, ma di vincere negli scacchi. Come infatti afferma lei stessa: “Esiste tutto un mondo in quelle 64 case. Mi sento sicura lì, posso controllarlo, posso dominarlo ed è prevedibile. So che se mi faccio male è solo colpa mia”. L’orfana, la bambina senza casa né famiglia, trova lo strumento per alimentare la propria illusione di poter controllare la realtà e attraverso la vittoria sfoga l’immensa rabbia che prova verso un mondo che non smette di darle scacco matto. Tale rancore le viene lasciato dalla madre, una donna arrabbiata con la vita, che ha una visione utilitaristica degli altri ed è sicura che in ogni modo, si sia sempre soli. È chiaro che la vita non sia così, ma Beth è solo una bambina quando sua madre le impartisce questa lezione ed ella non può che farla sua e portarsela dietro nelle relazioni con gli altri, esprimendola come una totale chiusura emotiva e un’assillante affermazione della propria superiorità intellettuale; “L’unica cosa che sappiamo di Elizabeth Harmon è che ama vincere” dichiara infatti lo speaker, senza però sapere che è anche l’unico atteggiamento con il quale ella riesce ad approcciarsi alla realtà. Sino alla fine non si accorge della differenza fra vivere e vincere, né pertanto delle persone che la circondano; non cerca il contatto con l’altro e intesse solo relazioni sessuali, fredde e prive di ogni intimità spirituale. Ossessione, dipendenza, rabbia, controllo: la protagonista scende lentamente in un abisso, in cui ogni mossa sembra portare ad un vicolo cieco.

 

Perdere sulla scacchiera per vincere nella vita
Nel momento di più profondo smarrimento, è lì che alla porta bussano coloro che ti sono sempre stati accanto. Elizabeth si è costruita una famiglia e non se ne era neppure accorta, né se ne accorge con un’illuminazione, ma è un processo graduale nel quale capisce che la vita vera, quella disordinata, incontrollabile, si trova aldilà degli scacchi e che forse vale la pena viverla. Sua madre dunque non aveva ragione, quel giorno in cui sarebbe rimasta sempre sola non è mai arrivato: Jolene, Townes, Beltik, ci sono sempre stati per lei e a differenza delle imponenti visioni dei pezzi che la sovrastano di notte, non si presentavano solo per aiutarla, come degli angeli custodi, ma per esserle vicino, come d’altronde fanno gli amici. Tuttavia per arrivare a comprenderlo ha bisogno di più di una sconfitta che mandi in frantumi il mito da lei stessa accuratamente costruito della ragazza che non perde mai, così da liberarsi dell’aurea di superiorità che si era auto-imposta affinché la proteggesse dall’imprevedibile dolore che può provocare una relazione umana.

 

Una regina in un mondo di re

Malgrado le cadute, i momenti di perdizione più totale e le varie dipendenza, Beth perpetua nel corso della propria vita un’assidua ricerca, a tratti aggressiva, di autoaffermazione, che la serie riesce con sottile maestria ad universalizzare. Infatti mentre cerca di scalare la classifica dei campioni mondiali di scacchi, senza mai accontentarsi, crea involontariamente una piccola rivoluzione femminista che non scade nella morale didattica, ma rimane nel sotto testo e nel titolo. D’altronde una donna, scacchista, sola e circondata da uomini che non riescono a batterla, attira senza dubbio l’attenzione e non solo negli anni ‘60: ancora circolano studi e affermazioni di grandi scacchisti che sottolineano la “virilità” del gioco e l’impossibilità biologica per il mondo femminile di prenderne parte. Tale credenza sessista era propria anche di Bobby Fisher, un campione di scacchi di cui Elizabeth sarebbe stata contemporanea e al cui carattere solitario, intuitivo e ossessivo pare che si sia ispirato Scott Frank per la caratterizzazione di Beth, con un chiaro intento ironico e provocatorio. Sfortunatamente mai nessuna donna è riuscita ad ottenere il titolo di campionessa mondiale, né è mai stata così ben accolta dagli altri scacchisti. Tant’è vero che la campionessa ungherese Judit Pòlgar, ottavo posto nella classifica mondiale del 2005, guardando la serie ha dichiarato che per quanto sia accurata nella rappresentazione delle partite e per quanto le abbia reso una sorta di deja-vù dei primi anni della propria carriera, mai sarebbe potuto accadere una storia simile, né allora né oggi: più una regina si dimostra brava dinanzi a qualche re, più aumentano i commenti sprezzanti e le umiliazioni. Il mancato realismo è stato pertanto l’aspetto più criticato, se non l’unico, sopratutto degli scacchisti, che pur lodando l’accuratezza delle mosse e delle partite, hanno definito la storia di Elizabeth favolistica. Tuttavia forse c’è bisogno di questa favola per dare uno scossone ad una dimensione il cui accesso alle donne è continuamente ostacolato, non solo dalle associazioni scacchiste in sé, ma anche da una società che storce il naso dinanzi ad una bambina che chiede alla madre una scacchiera.

 

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