Regista: Jim Jarmusch

Produzione: Stati Uniti

Anno: 2016

Attori: Adam Driver, Golshifteh Farahani

 

 

 

Il nostro giudizio: OTTIMO

Recensione: Enrico C.

 

 

Il 2017 è iniziato da neanche due mesi, ma è fin da ora facile prevedere che Paterson, arrivato nelle scorse settimane nelle sale italiane, risulterà una delle più belle pellicole dell’anno.

Film che affascina ed intriga perché completamente fuori dal mainstream contemporaneo e perfettamente in linea con l’opera mai banale di Jim Jarmusch, vero capofila del cinema indipendente americano degli ultimi 30 anni.

Qual è il suo segreto? Il tocco di minimalismo ed intimismo tipico di certa letteratura americana del’900 (la poesia di William Carlos Williams a cui continuamente Paterson si richiama)?

La fotografia che rappresenta le figure umane ed il contesto quotidiano come nello stile delle opere di Edward Hopper?

O semplicemente una certa “delicatezza” di tocco che rifugge ogni forma di forzata aggressività emotiva  che certo cinema contemporaneo ci propina in dosi industriali?

Comunque la si pensi , Paterson è un film molto “letterario” che vive di continui rimandi tra la dimensione visiva e quella della parola e in cui “l’epifania” tanto cara a Joyce la fa da padrona; nell’ “errare”  quotidiano del protagonista perso nelle sue meditazioni e  riflessioni (lo “stream of consciousness” joyciano appunto) ogni oggetto o immagine concreta si ripete secondo un ritmo circolare, anaforico (i fiammiferi, l’apparizione “casuale” per strada, in bus o nel bar di gemelli o gemelle a seguito del sogno di Laura, le lancette dell’orologio da polso al risveglio ogni mattina) e rivela al protagonista tratti dell’essenza della sua vita e – forse – del suo futuro.

Non è un semplice richiamo alla “poetica delle piccole cose” e un richiamo all’arte che vive – nascosta - in ognuno di noi…c’è molto, ma molto di più in quest’opera. Dietro l’apparente maschera di film “verista” si celano tutti i tratti del surrealismo  tipico dell’opera di Jarmusch: la rappresentazione della città di Paterson è quasi onirica, la ripetitività dei dialoghi (battute uguali che passano “di bocca in bocca” presso tutti i personaggi) e delle immagini (la cassetta delle lettere da rimettere a posto, il cane da legare prima di entrare nel bar) è volutamente accentuata in senso grottesco e tutt’altro che realistico; il film vive in uno spazio-tempo rarefatto e immobile. Lo stesso quotidiano, rappresentato dalla fissità delle inquadrature, è venato da un sottile senso di angoscia ed inquietudine; la poesia e l’arte in generale rappresentano il solo modo per evadere da uno schema che è totalmente bloccato, il solo mezzo che ha il protagonista per raggiungere la sua ascesi.

Un inno in cui l’unica ricerca di senso nella vita è affidata all’arte che, come tale, è ricerca di bellezza.

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