KIM KI-DUK (1960-2020) 

 

Recensione: Enrico C.

 

 

Che la vita di Kim Ki-Duk possa essere, nel futuro, il soggetto di un film è un’idea che non poteva non passare nella mente inquieta e tormentata del grande regista sudocoreano. E del resto Kim aveva già realizzato una sorta di docu-film proprio su questo: Arirang del 2011.

Un film di Kim Ki-Duk su Kim Ki-Duk, appunto, giunto dopo uno dei tanti periodi di esilio volontario che si è auto-imposto in una carriera piena di sofferenze e crisi di rigetto, in primis verso sé stesso.

La straordinaria forza di questa sorta di monaco laico del cinema risiede probabilmente proprio in questo: l’idea, assolutamente romantica, di poter giungere a una visione dell’arte senza compromessi dove il cinema riscopre la sua vena più pura, quella delle emozioni.

E non è certo un caso che tutte le sue pellicole (dalle prime, di fatto auto-prodotte e arrivate in Occidente anni dopo la loro realizzazione, alle ultime pluri-celebrate nei festival) siano state realizzate con pochi, pochissimi mezzi economici. Con attori di fatto noti solo in patria e senza mai attingere a cast internazionali (e di possibilità ne avrebbe avute, eccome, dopo i successi a Venezia e Berlino ). Rabbia, frustrazione, emarginazione e solitudine emergono dalle sue opere, di fatto solo tramite i gesti degli attori e la pura forza delle immagini, lasciando pochissimo spazio alla parola. Quasi i suoi film fossero semplice trasposizione su pellicola dei quadri “fiammeggianti” che soleva dipingere e vendere a Parigi negli anni ’90, per sostentarsi dopo aver lasciato una Corea che certo non l’ha mai particolarmente amato.

Il cinema occidentale, intossicato dai red carpet e dai lustrini, ha amato subito follemente questa specie di asceta senza alcuna formazione specifica che affrontava i grandi temi classici – in primis  l’amore “tossico e romantico” come nel capolavoro “Ferro 3-La Casa vuota” – solo con la forza degli sguardi e dei gesti, senza indulgere a nessun autocompiacimento, né forme di “captatio benevolentiae” verso lo spettatore.

Il satollo pubblico occidentale ha di fatto così riscoperto la forza di un cinema fatto di pura e cruda semplicità sempre in bilico tra candore (“Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera”) e violenza, anche estrema (“Pietà”, “Moebius”, “Bad Guy”).

Film scritti e diretti nel giro di un mese o poco più, come testimonia ad esempio la produzione tra il già citato “Arirang” e l’ultimo “Il prigioniero coreano” che conta ben 9 pellicole in 8 anni.

Una biografia così singolare da apparire unica nella storia del cinema non poteva che avere termine in uno scarno e straniante comunicato emesso dai media lettoni, in un malinconico giorno di dicembre.

Kim se n’è andato, in assoluta solitudine come sempre ha vissuto, per non meglio precisate complicazioni del Covid in una città di mare (Jurmala) in cui nessuno sa bene cosa sia realmente andato a fare, a comprare una casa, si dice per viverci o forse per farne il set del film che nessuno di noi potrà vedere.

E soprattutto se n’è andato in silenzio, lo stesso del suo cinema senza parole dove le anime sono prigioniere dei corpi, dei gesti e degli spazi angusti e spersonalizzanti come quelli delle periferie di Seul.

 

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