Recensione: Enrico C.

  

Dedico il primo spazio monografico sul cinema di OndeCritiche ad un grandissimo attore che si è ritirato dalla scene ormai da dodici anni (le ultime pellicole sono del 2004) e che ha deciso di vivere gli anni della vecchiaia e del crepuscolo con lo stesso stile e professionalità che ne hanno caratterizzato la carriera.

 

Non che fosse certo difficile trovare ruoli adatti per la sua attuale condizione anagrafica (si pensi ai Micheal Caine e Harvey Keitel de “Youth-la giovinezza” di Sorrentino, nati negli anni ’30 come lui), ma Eugene Allen Hackman è sempre stato un uomo caparbio, onesto, anche nel riconoscere quando mettersi da parte.

“Sono stato addestrato ad essere un attore, non una star, ad interpretare ruoli, non a gestire agenti, avvocati e stampa” ha detto spesso di sé.

Californiano di San Bernardino, classe 1930, Gene Hackman è figlio di un giornalista, nella sua giovinezza ci sono tante esperienze in piccole emittenti radiofoniche e tre anni nel corpo dei marines.

L’iscrizione alla scuola d’arte drammatica della Pasadena Playhouse a 30 anni è il turning point della sua vita professionale e l’inizio di una amicizia, che dura tutt’ora, con Dustin Hoffman, conosciuto proprio in quella sede.

Di lui si è scritto “professionale” e “sensibile”, l’interprete perfetto di figure virili e tormentate insieme, un vincitore con molti dubbi e amarezze.

Sarebbe del tutto inutile citare la filmografia di quello che, a mio avviso, è stato uno dei più grandi attori degli ultimi 30 anni e non certo per i soli premi o riconoscimenti (2 oscar vinti, con 3 nomination, 3 golden globes, un orso d’argento a Berlino).  Vorrei solo rappresentare qualche istantanea che si staglia sul mainstream di un percorso artistico comunque straordinario nella sua normalità e che è forse il miglior emblema di quella middle class americana uscita dalla guerra che ha di fatto incarnato.

Buck Burrow è il primo ruolo di livello di Hackman, il fratello di Clyde in Bonnie and Clyde di Arthur Penn (Gangster story) del 1967 che gli vale la prima nomination all’Oscar e la sensazione di essere pronto per un ruolo da protagonista.

Il detective Doyle de “Il braccio violento della legge” di Friedkin è il primo vero alter-ego di Hackman, rude, determinato, ma in un certo senso anche semplice e fragile nelle sue debolezze (le donne) o nel modo in cui cerca di contrapporre il suo monotematismo di essere poliziotto ad un criminale incredibilmente raffinato e sfaccettato come Alain Chernier (Fernando Rey).

Ma il ruolo che lo stesso Hackman definisce da lui meglio interpretato è quello di Max, il barbone istintivo e litigioso de “Lo spaventapasseri” di Jerry Schatzberg che fa da perfetto contraltare al sensibile e delicato Lion a cui dà il volto Al Pacino. Anche qui il personaggio di Max rivelerà tutta la sua profondità nel finale del film quando sarà lo stesso Hackman a comprendere i reali problemi dell’amico e a rinunciare ai suoi progetti (l’apertura di un autolavaggio) per venire a recuperarlo (la scena del biglietto di andata e ritorno acquistato alla fine).

Ho amato profondamente altre tre interpretazioni di Hackman, il serio, introverso, ligio al dovere Henry Caul de “La Conversazione” di Francis Ford Coppola, uomo tuttavia tormentato da ossessioni e sensi di colpa; l’agente dell’ FBI Anderson “venuto dal basso” ,tutto saggezza popolare e pragmatismo di Mississippi Burning di Alan Parker e il duro e cinico sceriffo Daggett de “Gli Spietati”, avversario tanto terribile per un Clint Eastwood crepuscolare quanto tuttavia onesto e sincero.

E’ sempre stato un uomo poco incline ai compromessi Gene, non per niente  ha rifiutato ruoli da protagonista come nel celeberrimi “Incontri ravvicinati del terzo tipo” o “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e ha scritto che il suo sogno di questi anni di “buon ritiro” è “di essere ricordato come attore decente, qualcuno che ha sempre cercato di fare il suo lavoro in modo onesto”

 

Buona vecchiaia, Gene

 

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