Recensione: Enrico C.
In una notte di inizio ottobre se n’è andato – quasi uno scherzo del destino per un cantautore che aveva chiamato “The Heartbreakers” la sua band – Thomas Earl Petty, uno dei più grandi interpreti della grande tradizione del rock americano degli ultimi quarant’anni.
A parziale consolazione per la perdita di una così grande icona musicale, è significativo constatare come il sipario sia calato durante l’ennesimo tour (proprio quello dei quarant’anni di carriera) e abbia colto l’artista non in un triste crepuscolo di inattività, ma “on the road” e con la fedele chitarra in braccio, come in un certo senso immagino avrebbe voluto lo stesso Tom se avesse potuto - con la sua graffiante autoironia -prefigurare la sua morte.
Non ha alcun senso provare a riassumere, come hanno fatto vari media, in poche righe o parole la carriera di un rocker di simile levatura citando album, brani e perfino, in alcuni casi, videoclip (d’autore anche quelli, impreziositi tra l’altro dalla recitazione di attori come Kim Basinger, Johnny Depp, Faye Dunaway, in alcuni casi vere opere d’arte anziché meri strumenti di promozione dei dischi).
E’ un esercizio molto più onesto e rispondente al vero provare a descrivere Tom Petty per stile e temi, due parole chiave da utilizzare.
Stile innanzitutto, quello di un “artigiano” della musica come spesso amava con modestia definirsi (“la mia chitarra è solo un utensile da lavoro” soleva ripetere), un artista completamente autodidatta che mai avrebbe pensato di dedicarsi alla canzone prima che Elvis Presley visitasse la sua città natale, Gainsville, in Florida e lo “ammaliasse” come solo i grandi artisti riescono a fare, mettendo in subbuglio la mente di un ragazzino.
Artista d’altri tempi appunto, rigoroso e meticoloso fino agli estremi e lontano anni luce dalle scorciatoie e dal successo facile. Nelle seconda metà degli anni ’70 le nuove tendenze musicali nascono negli scantinati e nei garage polverosi, non sui mass media; ogni album registra mesi – a volte anni – di gestazione in sale di registrazione e in città diverse in cui il suono si stratifica e si arricchisce prova dopo prova, senza computer o sovraincisioni. E il buon Tom non è certamente tipo facile a compromessi: l’album “Southern accents”, ad esempio, splendido inno al suo amato Sud, prende forma in tre anni di lavoro densi di fatica e tribolazioni varie (compresa la famosa frattura alla mano che Petty rimedia per un pugno contro il muro sferrato dopo aver ascoltato le prime demo del disco che, appunto, non lo soddisfacevano).
Una visione “romantica” dell’arte in cui accanto a Petty i principali musicisti e collaboratori per quarant’anni sono gli stessi amici e compagni degli inizi, il virtuoso delle corde e co-autore di tanti brani Mike Campbell, l’estroso tastierista Benmont Tench ed il bassista Ron Blair che aveva lasciato la band nel 1982 e che Tom “richiama” nel gruppo vent’anni dopo, a seguito della tragica scomparsa di Howie Epstein.
Sono gli “Heartbreakers” che molti, già dai primi anni ’80, accomunano alla E-street Band di Bruce Springsteen: non solo semplici musicisti-spalla per Petty, ma veri e propri elementi fondanti, a base dell’eclettica miscela musicale fatta di southern rock (“Down to the torpedoes”, “Southern accents”), psicadelia (“Into the great wide open”, “Full moon fever”), blues (“Mojo”) e sonorità garage (dallo splendido e notturno “Echo” all’ultimo “Hyphnotic Eye”).
Ed eccoci ai temi, e su questo versante, il rapporto con l’amico-maestro-mentore Bob Dylan è determinante. Da vero cantastorie (in questo perfettamente inserito nella grande tradizione del folk rock del Sud degli Stati Uniti) Petty porta alla ribalta la vita dei suoi eroi ribelli sconfitti e romantici come solo Dylan e Springsteen in un certo senso sono riusciti nell’ultimo secolo della canzone americana.
Ma se il “maestro” Dylan si è sempre proposto in modo così volutamente schivo al pubblico da sconfinare – perfino, bisogna dirlo – in atteggiamenti certamente antipatici e poco educati (si pensi al rifiuto di ritirare il Nobel o alla negazione del bis in tantissimi concerti) Petty è sempre stato apprezzatissimo anche come intrattenitore e performer, grazie all’enorme autoironia di chi, vero autodidatta della canzone, sa di dover molto alla sua platea.
L’unica recriminazione è appunto quella di averlo potuto ammirare così poco in Europa in generale e in Italia in particolare; l’ultima, splendida, apparizione (a cui lo scrivente ha avuto la fortuna di assistere) al Lucca Summer Festival del 2012, a 25 anni dalla precedente in cui apriva il tour italiano di Bob Dylan, chi se no?
Ma nonostante fosse un artista poco uso ai grandi tour intercontinentali i sui fan nel nostro Paese non sono mai mancati, spesso nascosti tra gli intenditori del rock ed i seguaci del divino vinile.
Tanti anni fa in un grande megastore di Milano mentre cercavo proprio tra i cd di “Tom Petty and the Heartbreakers” ricordo di essere stato fermato da un corpulento signore sulla cinquantina che, senza presentazioni o convenevoli, mi chiese a bruciapelo “Ma in “Long After Dark” suona ancora Ron Blair o c’è già Howie Epstein al basso”?
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